“Natura, Uomo, Calamità” – Lavori fotografici di Marina Caneve

di Elisa Heusch

IL QUARTO OCCHIO – Per questo mese di settembre La Redazione Online, memore del tragico evento che nel 2017 colpì con drammatiche conseguenze la città di Livorno, ha voluto incentrare il tema mensile sulla ‘volontà’, quella di risollevarsi ed andare avanti nonostante le avversità lungo il cammino, anche appunto nel caso di una calamità naturale inaspettata come l’alluvione che subimmo da vicino.

Anche se non direttamente collegato a ciò – ma sicuramente in parte inerente – mi vorrei concentrare su una fotografa che ha svolto una ricerca riguardante l’ambiente e soprattutto l’impatto dell’uomo su di esso.

Marina Caneve (nata a Belluno nel 1988) ha compiuto analisi dettagliate di vari luoghi, attraverso il linguaggio fotografico, che ha utilizzato come strumento e non fine per dare vita a complesse indagini di matrice interdisciplinare, in cui l’aspetto estetico occupa comunque un ruolo determinante.

Marina ha iniziato il suo percorso nella fotografia con Guido Guidi allo IUAV di Venezia; quell’esperienza l’ha molto affascinata, e le ha donato una predisposizione al guardare, all’aspettare e all’incappare nell’inaspettato e anche a volte nell’errore.
Successivamente ha studiato all’ECAL in Svizzera e poi alla Royal Academy of Arts in Olanda, prendendo parte in seguito a una lunga serie di masterclass, ed oggi insegna al Master IUAV in Photography e a Spazio Labò a Bologna.

Le costanti che sempre la accompagnano sono la questione della conoscenza veicolata dalla fotografia, la relazione tra fotografia e ricerca, la memoria, l’ambiente geografico-culturale, la vulnerabilità.
A oggi la sua pratica si sviluppa attraverso un approccio multidisciplinare basato sulla ricerca e il suo processo di lavoro si muove dalla fonte al poema, al ritmo, fino allo spettatore, confrontandosi con differenti prospettive, dal vernacolare-naïve al tecnologico-scientifico.

Parlando delle sue ispirazioni e dei temi ai quali lavora più spesso, ha spiegato:

Sono particolarmente interessata alla complessità e all’esplorare come la nostra conoscenza prende forma; al modo in cui percepiamo le cose e i nostri tentativi di cogliere le cose. E, di nuovo, i tentativi di cogliere cose che da un lato apparentemente sembrano troppo grandi e complesse da essere comprese, dall’altro cose che sono così prominenti che gli uomini faticano ad adattarvisi.
In qualche modo posso dire che trovo ispirazione nelle cose che non capisco e, in questo senso, vedo la fotografia come un modo per dargli forma. Sono estremamente affascinata dall’opposizione tra il magico e lo scientifico, per il luogo dove la poesia si intreccia con i fatti concreti. Confrontandomi con questi due punti di vista, considero ogni progetto come un tassello di un mosaico più ampio che forse non arriverà mai a compimento e che mi porta a confrontarmi costantemente con punti di vista e direzioni diverse.
Non è un caso che mi renda conto che, più che i discorsi lineari, sono le divagazioni ad affascinare e ispirare il mio lavoro.”

Nel caso di “Motherboard – Vajont, Le voci si contraddicono” (iniziato nel 2013) la natura si rimpossessa dei suoi spazi, proprio attraverso la catastrofe.

Il lavoro è nato in seguito alla fondazione, insieme a Gianpaolo Arena, del progetto CALAMITA/À e fa riferimento non solo alla questione della catastrofe (calamità) ma anche alla relazione attrattiva esistente tra la nostra società e le catastrofi (calamita) e affronta il tema sia con il lavoro di artisti internazionali che operano con diverse pratiche e modalità, sia a livello culturale con interviste, saggi e progetti educativi. È un progetto attraverso il quale l’autrice si è posta delle domande, come per esempio se una fotografia pacata, disincantata, empatica ma mai pietistica, potesse essere diversamente efficace rispetto alle immagini di distruzione per avvicinarci a tematiche complesse come lo sfruttamento dell’ambiente e le sue drammatiche conseguenze sulle persone che lo abitano.

Quello che è importante per Marina è naturalmente l’evento in sé, ma ancor più la rete di condizioni che hanno portato al suo accadimento e al suo sviluppo, forse ancora più cupo. Attraverso questo progetto ha avuto l’opportunità di iniziare una riflessione sull’immagine traumatica, traumatizzante, e sulla spettacolarizzazione del dolore e del disastro. Si è chiesta se fosse invece possibile, attraverso delle immagini pacate, evocare la gravità di un evento e attraverso dei segnali ben precisi restituirne una parte della complessità.
Lei stessa racconta, in un’intervista per Artribune:

Ho cominciato a realizzare quanto la nostra conoscenza possa risultare precaria e quanto le voci che ci danno informazioni siano spesso contraddittorie. Sto portando avanti sempre più il progetto in questa direzione. A oggi ne fanno parte anche una serie di immagini-testo e oggetti d’archivio.”

Il primo progetto che ha realizzato nella sua carriera, nel 2012, è stato “1 Km”, un lavoro su una piccola zona del territorio francese, che è nato dalle riflessioni sul ruolo e le possibilità delle campagne fotografiche di natura territoriale, studiando gli esempi più famosi.

La fotografa si è chiesta se e con quali modalità la fotografia potesse contribuire a un processo di costruzione di conoscenza rispetto alle indagini urbane e alle riflessioni con cui l’urbanistica contemporanea si stava confrontando.

Nel caso specifico ‘La Caravelle’, un complesso che con i suoi blocchi copre 1 km lineare di superficie, è stato un punto di indagine eccezionale avendo una storia che ha strettamente a che vedere con la necessità della costruzione di un punto di vista e di relazioni visive tra uomo, edificio e città.” spiega Marina.

La natura è protagonista anche di “Bridges are beautiful”(2015-ancora in corso d’opera).

La natura qua è antropizzata, vi si può addirittura leggere una sorta di disagio o di imbarazzo.

In questo lavoro l’autrice cita la voce ‘Utopia’ di Delio Cantimori, pubblicata sull’Enciclopedia Treccani nel 1937. Nello specifico la voce cita: “Ma le utopie più diffuse ai giorni nostri sono quelle di una riorganizzazione pacifica dell’Europa o del mondo (..)”, e probabilmente è questo il grande disagio con cui
si è dovuta confrontare.

E lo spiega precisamente con queste parole:

Trovo la questione estremamente affascinante perché mette in luce una serie di paradossi che vanno dalla natura alle strutture di potere alla geopolitica.
Il mio lavoro prende come riferimento la rete ecologica Natura 2000 per ragionare sulla presenza dell’uomo nei confronti della natura. La rete è costituita da una serie di corridoi ecologici promossi dall’Unione Europea, creati per preservare la fauna, la flora e la biodiversità. È un sistema di comunicazione transnazionale che va oltre le politiche di confine di ogni Stato, e mette al primo posto il pensiero ecologico. I ponti sono alcune delle infrastrutture più importanti della rete poiché facilitano il superamento delle barriere architettoniche da parte degli animali. Allo stesso tempo, recinzioni e telecamere di sicurezza dirigono, monitorano e seguono i loro movimenti, mettendo in dubbio la loro apparente libertà di movimento.

Manifesto frammentario della città di Venezia”è un altro lavoro da citare, ma in realtà non è un lavoro su Venezia, bensì realizzato in Puglia. Si tratta di una riflessione sul destino delle nostre città e sulla loro vulnerabilità, ma anche sulla banale rappresentazione delle stesse, soprattutto nel mondo dei social in cui siamo immersi, che è spesso molto banalizzante.
Recentemente l’autrice ha lavorato a un progetto per il Museo della Montagna di Torino, “Entre Chien et Loup”, che parte dagli stessi presupposti, e forse in fondo è lo stesso progetto anche se il territorio a cui fa riferimento, la montagna, il Cervino, potrebbe sembrare diametralmente opposto. Entrambi i progetti lavorano sui codici visivi che rendono le cose riconoscibili per come la nostra cultura – occidentale – ci ha insegnato non solo a dare per assimilate, ma ancor più a desiderarle.
Il commercio e la vendita sono, in effetti, ciò a cui fanno riferimento le immagini intorno alle quali ruota la logica dei social; in questi lavori viene solcato il limite tra i desideri delle persone ‒ nella contemporaneità ‒ e l’immagine della città per come si è costituita attraverso una serie di simboli che appartenevano a un modo di codificare le città, forse, precedente.

Are They Rocks or Clouds?è un lavoro complesso che Marina ha realizzato dal 2015 al 2019 ed è nato in forma di libro o comunque è stato immaginato da subito come forma editoriale, in tutti i vari aspetti e le specificità del progetto.

Nel 2018 Lesley A. Martin le assegnò il dummy Award a Cortona On The Move e a quel punto, grazie alla collaborazione con lo scrittore e curatore Taco Hidde Bakker, è stato coinvolto il designer ed editore Hans Gremmen che ha trasformato il prototipo in un vero e proprio libro.
Il libro, pubblicato da OTM e Fw:Books new 2019, è costituito da una serie di parti: l’archivio, che ci mostra come è il problema quando accade, il layering, che se da un lato fa riferimento alle sovrapposizioni di strati di rocce rappresentativi della struttura geologica delle Dolomiti, la bellezza e la fragilità delle montagne, dall’altro fa riferimento all’idea di confusione e concatenazione di cause spesso visibilmente non dissociabili dalle altre; i tre testi che da punti di vista diversi (antropologico, geologico e letterario) rispondono alle stesse domande sul come guardare il paesaggio, e infine la “coda” che, come alla fine delle sinfonie, non costituisce un indice ma una sorta di elemento che in parte spiega e in parte aggiunge.
In questo caso specifico il libro non è un accompagnamento o un catalogo, come avviene di solito, ma è il progetto stesso.

Tutti i lavori della fotografa sono visionabili sul suo sito:

http://www.marinacaneve.com
MARINA CANEVE www.marinacaneve.com

Marina Caneve (Belluno, 1988)
Dopo aver studiato fotografia al KABK Royal Academy of Arts Den Haag (NL) (2017) e Architettura allo IUAV di Venezia (2013), Caneve sperimenta l’utilizzo della fotografia come strumento di osservazione autonomo all’interno di un processo di ricerca interdisciplinare. Con il progetto “Are they Rocks or Clouds?” ha vinto Premio Giovane Fotografia Italiana a Fotografia Europea – Reggio Emilia (2018) e il Photobook Dummy Award a Cortona On The Move (2018). Il libro è stato pubblicato da Fw:books e OTM (2019).
È tra i vincitori del bando Atlante Architettura Italiana promosso dal MUFOCO e dal MiBAC (2019). Nello stesso anno è tra i selezionati del bando iAlp promosso dal Museo Nazionale della Montagna (Torino), per cui ha realizzato un progetto inedito che è entrato a far parte della collezione del Museo. Nel 2018 è stata invitata a prendere parte alla residenza d’artista Docking Station (Amsterdam) per sviluppare “Bridges are Beautiful”, una ricerca ancora in corso sulla libertà di movimento in Europa. Nello stesso anno le è stato commissionato un progetto per la nona edizione di Cavallino Treporti Fotografia. Il progetto, con un testo in sei brevi capitoli di Taco Hidde Bakker, è stato pubblicato nel catalogo “The Shape of Water Vanishes in Water”, A+Mbookstore edizioni (2018). Dal 2019 è anche docente al Master IUAV in Photography (Università IUAV, Venezia).

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